
La vita nel momento stesso in cui nasce porta con sé il seme della sua fine. Tale consapevolezza ci distingue dagli altri esseri viventi che abitano il presente senza il peso dell'inevitabile, lo si vede nel modo in cui affrontano la malattia. Gli animali vivono l’istante puro, mentre l’uomo, convive con l’ombra della morte, sapendo che ogni attimo è un passo verso di essa.
In questa certezza dovrebbe celarsi la forza di un rinnovamento. Quando l’accettazione della fine diventa parte dell' essere, non è più una condanna, ma una spinta a vivere con più intensità. È nel riconoscere la nostra fragilità che troviamo il coraggio di riscoprire la vita, di reinventarci, di amare con maggiore profondità.
“Non pregare, piuttosto benedire”, Nietzsche ci invita a non rifugiarci in una passiva attesa o in una supplica vana, ma a celebrare ciò che è stato e ciò che è. Il lutto non dovrebbe ridurci al silenzio del dolore ma spingerci a ricordare con gratitudine.
L'assenza non può mai essere totale. Chi è entrato in contatto con noi ha lasciato una traccia nella nostra vita. La dimenticanza può insinuarsi ma l’assenza assoluta non è possibile.
L’essere stati significa che non potremo mai più essere del tutto persi.
Foto di Riccardo Pace